È sin dall’esordio un problema di categorizzazione ad accompagnare “In cold blood“. Un reportage, una cronaca. Perfino “un giallo“, come viene ancora oggi presentato da qualche libraio distratto, tratto in inganno dalla trama letta di sfuggita nell’aletta di seconda. Ciò che è certo, già dal 1965 quando il racconto viene pubblicato a puntate sul The New Yorker, è che non si tratta di una storia di fantasia. Ma neppure di un puro fatto reale.
Il pubblico della rivista newyorkese legge il testo firmato da Truman Capote e fatica a comprendere. Qualcosa non torna, quasi che il “giallo” sta nella scoperta del genere piuttosto che nei colpevoli. Per questo il lavoro porta con sé l’esigenza di dichiarare la nascita di un nuovo genere letterario, definito Non-fiction novel. Ma come può un romanzo essere non finzionale? O piuttosto, come si può scrivere di realtà facendola sembrare un romanzo?
La risposta è nella genesi stessa dell’opera, strettamente intrecciata alla vita dell’autore. È il 1959, Capote ha 35 anni ed è già un autore di prestigio riconosciuto dall’alta società newyorkese grazie alla pubblicazione del suo Colazione da Tiffany, quando una mattina, sulla prima pagina del New York Times si imbatte in un articolo intitolato: “Wealthy farmer, 3 of family slain: H.W.Clutter, Wife and 2 Children are found shot in Kansas Home“, “ovvero “Ricco contadino e 3 membri della sua famiglia uccisi: H.W.Clutter, moglie e 2 figli vengono trovati uccisi in una casa del Kansas“. Nella cittadina di Holcomb, «un’area solitaria che gli altri abitanti del Kansas chiamano “laggiù”», vengono brutalmente assassinati Herbert William Clutter, proprietario terriero, sua moglie e due dei loro quattro figli.
Colpito dalla notizia, tanto da sentirsi in dovere di raccontare quella storia, Truman parte per il Kansas dove resterà per i successivi cinque anni. Interroga conoscenti, entra in contatto con gli abitanti del luogo, raccoglie testimonianze e, dopo la cattura, inizia a frequentare i due assassini Perry Smith e Dick Hickock, che seguirà con vari incontri fino alla loro morte arrivando a conoscerne pensieri e sensazioni.
Quanto ascoltato e provato, guidano l’autore verso il linguaggio nuovo di un’opera di giornalismo-verità, o romanzo-verità. Si attiene ai fatti, ma alla cronaca unisce il potere dell’immaginazione che rallenta lo stile concitato del puro genere noir. L’occhio diventa addirittura cinematografico. Prima di arrivare al fatto, Capote descrive paesaggi, la cultura del luogo, gli abitanti, ricostruisce per il lettore il carattere dei protagonisti, dall’abitudine del Signor Clutter di “svegliarsi alle sei e mezzo per controllare a piedi l’intera tenuta” a sua moglie, spesso a letto “in preda alle ansie e alle paure” della sua depressione. Il lettore empatizza con loro, si dispiace per la loro morte e percepisce quanto essa abbia destabilizzato la comunità di Holcomb. Ma lo stesso avviene anche con gli assassini, che Capote ritrae con la stessa mano.
È però un artista silenzioso. Oscurato. Perché nonostante la partecipazione fisica alla ricerca e alla ricostruzione degli eventi, l’autore decide di eclissarsi e non invadere mai il mondo al di sotto della copertina. Resta nell’ombra, assumendo il ruolo di intermediario grazie al quale il racconto viene alla luce.
Il nuovo stile di scrittura, il modo di trattare le fonti e la capacità di immaginare unita alla cronaca, da elementi fonti di dubbi passeranno ad essere la vera forza dell’opera. Pubblicata a puntate nel 1965, diventerà un libro l’anno successivo. Il successo di vendite e la traduzione delle pagine in ben 37 lingue porteranno l’autore all’apice del suo successo, noto nel mondo e punto di ferimento per gli autori che verranno.