Saturday 11 May, 2024
HomeCulturaLa contemporaneità invade la lirica e racconta all’oggi il bellum di Cesare

Il De bello gallico di Nicola Campogrande ha fatto il suo debutto al Pergolesi lo scorso 24 novembre. Un’opera contemporanea che conquista uno spazio tra titoli di repertorio, firme di grandi compositori e tradizione, prima che, il 15 dicembre, la Rondine di Puccini chiuderà la stagione. Al centro, l’antica arte della guerra, ma anche l’arte di raccontarla, tra antichi valori e contemporaneità

Il più antico trattato militare esistente è quello scritto dal generale e filosofo cinese Sun Tzu, nel VI secolo a.C. ed è intitolato l’Arte della guerra. L’azione bellica letta con la lente dell’arte. Un ossimoro per certi versi, che accosta un concetto puramente positivo e dedicato alla bellezza ad un suo opposto caratterizzato da morte e dolore. Quando le immagini delle città ucraine bombardate o dei civili a pezzi, curati a terra negli ospedali di Gaza, invadono la nostra quotidianità, leggere la guerra come un’arte appare una richiesta inconcepibile quanto ingiusta. Resta però il fatto, che ancor prima di pittura o scultura, l’uomo ha dedicato intelligenza e strategia per prevalere sull’altro. L’antichità e l’associazione del bellum alla violenza che connota biologicamente l’uomo l’hanno resa un’arte legittima, indispensabile per regolare gli animi tra popoli nemici.

Accanto ad essa, l’uomo ha sempre praticato anche un’altra arte, quella del suo racconto e in questo caso, l’arte centra eccome, perché portavoce del dolore che la guerra porta con se.

L’arte di raccontare la guerra, dai secoli al palcoscenico

Anche l’arte di raccontare la guerra attraversa i secoli. Un repertorio ricco con il quale confrontarsi, diviso tra il racconto dei vinti e dei vincitori. Ma cosa succede quando uno dei più noti racconti di guerra come il cesariano De bello gallico, incontra un ambiente altrettanto antico come il teatro ma un compositore dell’oggi, figlio della contemporaneità? Come si fa oggi l’arte di raccontare la guerra?

La risposta è tutta nell’opera ospitata, nella sua prima mondiale, da Teatro Pergolesi lo scorso 24 novembre. Il De bello gallico, su libretto di Pietro Bodrato e musica di Nicola Campogrande ha portato in scena Cesare alla conquista della Gallia. Un bellum di conquista per alimentare la grandezza di Roma diligentemente raccontato da Aulo Irzio nei Commentarii de bello Gallico.

Il dualismo pervade la rappresentazione. Ad iniziare dalla scenografia dove la modernità di una tribuna svetta sulla sacralità del palcoscenico. Accanto a Cesare, Irzio ed i fedeli soldati romani, una donna guida lo spettatore alla conquista di Elvezi e Arverni. Si tratta in realtà di una figura retorica, che muta forma in base alle fasi della guerra da raccontare, incarnando quelli che sono i veri protagonisti di ogni conflitto. La Gloria che ogni “condottiero è pronto a morire per renderla sua“, la Fortuna bendata, volatile come “una sbandata“, la Pietà, muta e velata. Appartiene ai popoli vinti, non parla perché quali parole si potrebbe dire a chi “vede i suoi cari in fumo“, a chi “vede coperto di sangue l’orizzonte amato dove è nato“?

La portavoce muta dei “popoli stuprati dalla storia“. Dimenticati e sopraffatti dalla narrazione dei vinti. In nome di una patria che prevale. È Roma l’ultima donna incarnata dalla soprano Nikoletta Hertsak. La patria degli ideali, che arriva, vede e vince. L’impero “femmina” che si fa strada su popoli creduti “inferiori” guidato dall’evangelica missione di ” portare le leggi e l’acqua corrente, la tecnica ed un logos coerente“.

Alla fine il giovane Vercingetorige sarà costretto a cedere alla modernità di Roma. Così come la lirica, che grazie a Bodrato e Campogrande, cederà al linguaggio contemporaneo per parlare ai giovani. La guerra viene narrata dai passi d’un “giro di danza col fiero straniero” sulle note di un fandango fiammingo, un incontro di boxe da tifare da una tribuna, e il linguaggio attuale unito all’originario latino dell’opera. Il noto S.p.q.r. come brand di vittoria e la costruzione di una leadership che passa per la messa in mostra dei propri pregi.

Dai Commentarii alla ricerca di un social consenso

Come fosse in un “vincente profilo social” di un politico di oggi, Cesare rimarca le sue origini e si autocelebra per far sapere al mondo, e a Roma, la sua maestria nel fare la guerra.

Perché la leadership si costruisce in primis con le parole. E questo lo sa anche Vercingetorige che entra in scena mettendo in luce quella forza derivante dall’avere 20 anni, ” età degli entusiasti e sognatori. Di cuori fieri. Liberi, sinceri. Solo il domani esiste e non c’è ieri. In testa un solo tarlo, vincere Cesare umiliarlo“.

A trionfare sui 20 anni del condottiero degli Arverni sarà Cesare, portavoce narrativo di una ben più grande realtà, quella della dittatura, narrata e giustificata, in un concetto diretto ed immediato, “postato” con tali parole:

Repubblica è un termine vano la legge dei patres un pantano. Repubblica è un termine amato ma se non agiscon non dura, laddove ha fallito il senato non resta che la dittatura

Conquistata la Gallia, Cesare torna a Roma e i nemici sono ovunque. Sarà guerra civile, perché le sofferenza calpestata non conta di fronte alla voglia di affermare il proprio valore. Nei successivi cinque anni il conflitto mette l’uno contro l’altro i cittadini di Roma, ricordandoci che l’arte della guerra è perpetua e continuerà sempre a regolare i rapporti tra gli uomini.

Grazie al suo racconto della guerra Cesare passa alla storia. Vinto da una congiura che lo farà “morire cieco tra gli attori di un brutto dramma greco“, commenta con il pubblico la sua vita e l’importanza di conquistare la storia e il tempo che passa, incastonando addirittura il proprio nome nel calendario che scandisce, ancora oggi, i nostri mesi dell’anno. Il caldo luglio tramanda così ai posteri il nome dell’imperatore mentre l’opera debuttata si fa carico di raccontare al pubblico una verità antica quanto l’uomo.

Che l’arte del bellum è perpetua e vince sempre la pace, che dopo una guerra di conquista ne seguirà sempre un’altra in nome del potere e che, di fronte alla Gloria dei vincitori trascritta e raccontata, vi è sempre la pietà dei vinti, muta e dimenticata.

Nella produzione della Fondazione Pergolesi Spontini, il De bello gallico vede sul palco il baritono Giacomo Medici nelle vesti di Cesare; il soprano ucraino Nikoletta Hertsak per la figura allegorica, il tenore Oronzo D’Urso per Aulo Irzio e Vercingetorige. L’opera è affidata alla bacchetta di Giulio Prandi e alla regia di Tommaso Franchin, luci di Marco Scattolini; scene e costumi sono di Daniel Mall e di Gabriele Adamo, due studenti dell’Accademia di Belle arti di Venezia che con il loro progetto hanno vinto la terza edizione del Concorso dedicato a Josef Svoboda “Progettazione di Allestimento scene e costumi di Teatro Musicale”. Suona il Time Machine Ensemble, il Coro Universitario del Collegio Ghislieri, diretto da Luca Colombo. Firma la musica Nicola Campogrande su libretto di Pietro Bodrato.

Autore

Giorgia Clementi

Nata sotto il segno del leone, cresciuta nella capitale del Verdicchio. Dopo la maturità classica al Liceo Vittorio Emanuele II di Jesi scopro l'interesse per il mondo della comunicazione che scelgo di assecondare, dapprima con una triennale all'Università di Macerata, ed in seguito con una laurea magistrale in Giornalismo ed editoria all'Università di Parma. Spirito d'iniziativa, dinamismo, (e relativa modestia), i segni che mi contraddistinguono, insieme ad un amore unico per le bellezze del mio territorio.