L’antropologia è quella scienza che studia l’uomo. Non come la medicina che ne studia il corpo alla ricerca di una cura. L’antropologia studia l’uomo in relazione ad un contesto storico, linguistico o culturale. Come l’uomo insomma, si definisce in relazione con gli altri.
Una delle prime cose insegnate quando si segue un corso di antropologia è la differenza tra natura e cultura. La natura è la componente immutabile dell’uomo, la cultura, tramandata, appresa e condivisa, il suo opposto. Da questa differenza, che dovrebbe essere nota a tutti, è partita anche la lezione dell’antropologo Marco Aime a Palazzo della Signoria quando, lo scorso venerdì, ha incontrato studenti e cittadinanza, nell’ambito del festival Jesi Educa.
Un grande momento formativo che ha permesso di parlare di identità, culture e migrazione, secondo una chiave di lettura antropologica.
Ad accogliere Aime, l’assessora ai servizi educativi Emanuela Marguccio che ha presentato il nuovo logo della Comunità Educante ( il “patto” che vede coinvolti 45 soggetti – comprese tutte le scuole di ogni ordine e grado ) e il sindaco Lorenzo Fiordelmondo. ” Le identità sono qualcosa di molto complesso rispetto a quanto veniva percepito negli anni passati – ha affermato quest’ultimo in apertura. Hanno a che vedere con la globalizzazione e con le migrazioni. Uno di quei temi che misurano non solo la forza educante di una città ma anche la sua capacità di crescere in una dinamica di convivenza civile. A Jesi questo va avanti da molti anni e momenti formativi come questo ci aiutano a riflettere nel nostro modo di relazionarci all’altro“.
” Costruiamo il nemico per definire noi stessi”
La lectio di Aime prende le mosse proprio dal termine ‘Identità“. Un termine diventato noto in epoca recente, ha spiegato, diventando una metafora: “quando cade il muro di Berlino cadono le narrazioni novecentesche che erano uno sguardo sul futuro. Nel crollo delle ideologie si sono insediati movimenti localisti che hanno rivolto al passato la nostra identità. Si parla di ogni popolo e di culture che quando si incontrano si contaminato. Come se le culture si peggiorano a vicenda, quindi meglio starsene ognuno a casa sua. Questa retorica nasce dal pensare le culture come blocchi“.
“Anche l’espressione scontro o incontro di culture è fuorviante -ha continuato. Chi ha mai visto culture vagare e scontrarsi? Uomini e donne e bambini si incontrano e scontrano e ognuno è portatore di esperienze“.
“Ogni cultura è multiculturale. Il pensiero occidentale è indubbio che discenda da quello greco ma i greci avevano i barbari che se imparavano a parlare il greco diventava greci. Lo stesso vale per i romani. C’era un confine culturale ma era superabile. Quando invece stabiliamo dei confini su un’ ipotesi biologica è una condanna definitiva“.
Come quello successo in Italia: “quando qualcuno è arrivato qui ci siamo trovati spiazzati. Lo straniero è stato visto come colui che aveva passato il confine. Non aver fatto i conti con la nostra storia ha fatto sì che di colpo venisse drammatizzata la situazione per uso politico. Ma lo straniero non è sempre stato un nemico, Ulisse è stato accolto in ogni terra che ha incontrato“.
Togliere la “G” all’integrazione
“Spesso siamo vittime della tendenza classificatoria dell’altro che spesso viene giudicato secondo pregiudizi e stereotipi. A me non piace la parola integrazione perché prevede che ci sia un nucleo integro. Integrare in un’unità che non c’è, perché siamo già litigiosi tra di noi. Togliamo la g e parliamo piuttosto di interazione. Costruire delle relazioni di tipo diverso che portano alla convivenza e allo scambio“.
Le stesse tradizioni che secondo il pensiero comune sono gli elementi e le pratiche che più connotano un popolo nascono dell’interazione e lo scambio, ha spiegato Aime in conclusione.
“Quando si iniziò a parlare di globalizzazione si iniziò a temere che le identità sparissero. Ecco, questo non è successo. È successo il contrario con ogni gruppo che prende dal globale ciò che gli fa più comodo e lo rielabora, facendolo diventare qualcos’altro. La stessa tradizione è generata dell’invenzione. Basta bensare ai più tipici piatti italiani: la pizza e gli spaghetti sono uno arabo e l’altro cinese e su entrambi mettiamo il pomodoro che è americano!“