“Divide et impera“, usavano dire nella reggia di Francia del XVI secolo. Una frase latina che suggerisce di “dividere per comandare“. Per la sociopolitica militare si tratta di dividere popoli, solcare confini ed affermare una supremazia sull’altro. Ma portata fuori dal suo luogo di nascita, “divide et impera” può diventare un monito di salvezza. Con il dolore ad esempio. Dividerlo – o meglio con-dividerlo- per governarlo. Lo ha ricordato martedì sera, 14 dicembre, Teresa Manes, la mamma di Andrea Spezzacatena, il ragazzo dai pantaloni rosa di cui molti di voi avranno sicuramente ricordato o conosciuto la storia grazie al film uscito a metà novembre. Lo ha raccontato a Castelbellino, come ospite di un progetto che l’amministrazione comunale ha presentato all’Istituto Beniamino Gigli di Monte Roberto.
L’iter è iniziato con l’acquisto del libro per gli studenti, che hanno poi eseguito attività di sensibilizzazione sul tema del bullismo e cyberbullismo, “una delle sfide più significative oggi per ragazzi e famiglie“, ha ricordato in apertura la dirigente scolastica Maria Nadia Gesuè.
Scivolare
Prima di incontrare a scuola, mercoledì mattina, i ragazzi dell’istituto scolastico, Teresa ha incontrato le loro famiglie nella Sala Margherita Hack. “Andrea si uccide il 20 novembre 2012” – racconta. Il ricordo ha la forma di una “poltroncina” dove si appoggia per “non scivolare” e una “sensazione di molliccio” che nel viaggio da Crotone verso Roma – è lì che Andrea muore mentre sta con suo padre – “si trasforma in rigidità muscolare“, per un dolore che, per quanto grande, ha davvero il potere letterale di paralizzare. Le domande iniziano a scivolare tra i pensieri: “non riuscivo a capire perché un figlio che solitamente era solare, che aveva spento 6 giorni prima le sue 15 candeline, si fosse lasciato andare giù da una scala. Sapevo del rifiuto di una ragazza ricevuto a San Valentino, ma Andrea muore a novembre. Che è successo nel mentre?” Intanto, nel cortiletto dell’abitazione dove si trovava, arriva uno scenario inaspettato. La dirigente scolastica le manda un messaggio con scritto ” ma tutti gli volevano bene” Una frase strana, alla quale segue la scoperta, sulle prime pagine dei giornali, che la storia di Andrea fosse diventato il “caso nazionale del ragazzo coi pantaloni rosa“.
“Nei giornali c’era il volto di mio figlio con questa parrucca“. E poi la pagina Facebook, aperta a scuola dagli studenti in un momento di autogestione. Alcune delle frasi lette, oggi vengono presentate da Teresa agli studenti. “Ho letto tra gli interstizi l’inconsapevolezza dei compagni che si stavano trasformando in bulli e mio figlio in una vittima“. A titolare le frasi, alcune parole come “intenzionalità” e “persistenza“: “Andrea doveva andare ad una festa di carnevale e si trucca. Una delle frasi si legge: io direi meglio donna che uomo. Non c’è una parolaccia in quella frase, ma c’è tutto il pregiudizio li dentro. La violenza persiste sempre, anche quando un video si riproduce, si riferisce, si ripropone“.
Ruoli e responsabilità
Dopo i funerali di Andrea, dalla scuola arriva una lettera aperta, firmata da una parte del corpo docente, studenti e famiglie. In quelle righe, la descrizione di Andrea come un ragazzo “complesso” e dal carattere “particolarmente estroso“. “Più sensibile” di qualsiasi altro ragazzo di fronte a quei gesti che erano semplicemente “prese in giro da parte dei compagni“, per le quali non sembrava neanche soffrire più di tanto dato il suo riderne insieme a loro nella maggior parte delle occasioni.
“Io non avevo preso in considerazione il bullismo – dice Teresa. Nella maniera più assoluta. Associavo alla vittima chi tornava a casa con l’occhio nero o gli occhiali rotti ma Andrea era una vittima che rideva per essere parte del gruppo. E quando accade questo, allora il gruppo va cambiato“.
La scelta di “condividere per sopravvivere al dolore“, arriva a chi ascolta come un toccante momento di riflessione accompagnato, a tratti, da cenni di rabbia, nel momento in cui l’esempio dei gesti ascoltati suggeriscono estrema leggerezza ed ipocrisia da chi dovrebbe insegnare la giustizia anziché infangarla. Come può un insegnante definire episodi di bullismo, di cui è evidentemente a conoscenza, come una “presa in giro“, se l’effetto di quello “scherzo” è la morte di un suo studente?
E non c’entra solo il bullismo. La storia di Andrea sottolinea di rosso le parole “ruolo” e “responsabilità“. Quella dei docenti, sicuramente. Quella dei genitori che non “denunciano l’atto ma difendono” la violenza dei figli – come sottolineato dalla psicologa Katia Marilungo, tra gli altri relatori dell’incontro. La responsabilità della stampa, quando sceglie di svelare informazioni che neanche i parenti più prossimi delle vittime conoscono, con immagini e titoli che, anziché chiarire, alimentano polemiche e pregiudizi. Ed infine, la responsabilità dei ragazzi. Di chi ci mette la faccia e lancia il sasso. Ma anche il ruolo del claquer, che applaude, riprende e ride.
Ruoli e responsabilità, che disegnano le dinamiche su cui si reggono scuole, famiglie e gruppi dei pari da decenni. La storia di Andrea, così come molte delle storie ascoltate da ancora prima del 2012, sono esemplari della solidità del sistema. Al suo interno, al contempo, è l’esempio di Teresa a diventare un apostrofo rosa. Il colore che il linguaggio poetico usa per l’amore. Lo stesso dei pantaloni per i quali suo figlio veniva “preso in giro“. Illude che forse, domani, quel sistema possa partorire almeno, una vittima cattiva in meno.