Pesaro ci aveva già provato, senza riuscire: nella bacheca della Victoria Libertas erano stati riposti trofei importanti, la Coppa delle Coppe, contro Villeurbanne, la Coppa Italia contro la gloriosa Varese, ma non era ancora riuscita a cucire quel triangolo tricolore sulle proprie canotte.
Prima Skansi, un grande passato da giocatore a Pesaro, poi Sacco, non erano riusciti, dalla panchina, a guidare “basket city” allo scudetto, fino a che, con l’arrivo di Bianchini, c’era stata la svolta.
Nel suo curriculum due scudetti e due Coppe dei Campioni, abbastanza per continuare a pensare in grande.
Il primo passo è costruire un roster di qualità, come prima cosa con un gruppo di italiani, all’epoca di grande rilievo, Costa, Gracis, Magnifico, Vecchiato, Zampolini, oltre ad Aureli, Cocco, Del Cadia, Minelli, Motta, Natali, Pieri.
Come primo straniero Bianchini sceglie Aleksandar Petrović, fratello maggiore di quel Drazen che sta imperversando sui campi di gioco europei. In realtà la squadra diventa letale con l’arrivo di due assi, dagli States, Darwin Cook e Darren Daye, il primo play-guardia con tanti punti nelle mani, il secondo arrivato direttamente dalla NBA (Celtics).
Nonostante ambizioni e aspettative, la stagione si chiude con un quinto posto nella regular season, 18 vittorie e 12 sconfitte, con 36 punti, pari merito con la Virtus Bologna, alle spalle di Varese (46), Milano (42), Cantù (40), Caserta (38), insomma, la crema del basket in quell’epoca.
Il meglio doveva ancora arrivare: si parte agli ottavi, contro Reggio Emilia, la serie finisce 2-1 per Pesaro, nei quarti bastano appena due partite per avere la meglio su Caserta, poi il primo vero ostacolo nelle semifinali, Varese. I lombardi hanno il vantaggio del fattore campo.
Varese all’epoca è una corazzata, con Joe Isaac in panchina e sul campo Pittman, Rusconi, Sacchetti, Thompson.
Gara 1, va alla squadra di casa, ma Pesaro riesce a ribaltare la serie guadagnando la finale: gara 3 finisce 78-77.
Raccontano che in città vengono perfino suonate le campane di una chiesa, per annunciare il “lieto evento”.
Resta l’ultima fatica, la più difficile, battere Milano, campione in carica che ha già portato a casa, in quella stagione, Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale.
Pesaro parte bene, il vecchio hangar, il palazzetto di via dei Partigiani, è una bolgia e la squadra di Bianchini inizia la serie con una vittoria, 90-82. A Milano arriva il bis, ma la squadra di Casalini, che ha ereditato la panchina da Peterson, riesce ad accendere la fiammella della speranza, vincendo gara 3.
Per gara 4, che si rivelerà decisiva, si torna a Pesaro, finisce 98-87 per la Scavolini.
Per Bianchini il terzo scudetto con tre squadre diverse, per Pesaro il suo primo scudetto.
La frase dell’indimenticato sponsor, Valer Scavolini, in seguito proprietario del club, passerà alla storia: ”i sogni alcune volte restano tali, invece questo si è avverato”.
Per i tifosi festa grande, qualcuno poi racconterà di aver visto rotolare per le vie della città il calco dell’opera d’arte di Pomodoro, nativo di Pesaro, la celebre palla, esposta a Milano e New York.
Nel corso degli anni arriverà un secondo scudetto. Poi si sa, a volte lo sport riesce ad essere crudele e per la Pesaro dei canestri arriveranno momenti difficili, perfino l’estromissione dal campionato, dopo la scellerata gestione Amadio.
La ripartenza sarà dal basso, B/2, grazie alla fusione con la concittadina Delfino: per Pesaro un lento, ma graduale ritorno alla “normalità”, la massima divisione.
Per chi quel 18 maggio del 1988, può ben dire “io c’ero”, restano i ricordi di una giornata storica per Pesaro e per le Marche.