La storia che ci ha raccontato la giornalista afghana Shamim Frotan
«L’ultima notte a Kabul Il 25 agosto 2021, alle sette di sera – inizia così il racconto della giornalista afghana, che attualmente vive in Italia – il telefono squillò: capii che era arrivato il momento di partire. Non un viaggio scelto, ma una fuga obbligata. Non ero riuscita a salvare nulla, neppure un piccolo ricordo. Avevo solo un abito addosso e uno zaino vuoto, riempito soltanto di paura e dolore.»
Costretta a lasciare il paese, Shamim aveva dovuto anche rinunciare agli affetti:
«Tutto il resto la mia casa, i ricordi, i volti amati di mia madre, di mio padre e dei miei amici rimaneva alle mie spalle, in una città che stavo per lasciare per sempre. Il cuore mi tremava mentre l’auto si dirigeva verso l’aeroporto. Kabul era avvolta in un’oscurità strana, ma non così profonda da nascondere le sue ferite. Più mi avvicinavo, più vedevo scene che non dimenticherò mai: folle di persone in fuga, corpi spinti dal terrore, voci spezzate tra pianti e urla che tagliavano l’aria. Alcuni stringevano bambini, altri trascinavano sacchi o valigie; tutti cercavano una via verso la salvezza. Quella notte la trascorsi come un’ombra, in piedi, accanto al filo spinato, tra rifiuti e polvere. In lontananza, il suono degli spari si mescolava al mormorio disperato della folla. All’alba, come un respiro affannoso, la luce arrivò».
Con l’aiuto dei soldati italiani, la possibilità di entrare in aeroporto.
«L’aria era satura di un odore acre e soffocante. Il sole bruciava la pelle e, con esso, nella mia mente riaffioravano i ricordi del 15 agosto 2021: il giorno in cui Kabul cadde nelle mani dei talebani un gruppo che non avrebbe mai accettato me, una donna poetessa e giornalista, né le migliaia di persone come me. Quel giorno, alcuni si aggrapparono agli aerei in decollo e precipitarono al suolo, morendo sotto il cielo che sognavano li avrebbe portati in salvo. Il momento più doloroso fu l’addio ai miei genitori.
Mia madre mi accompagnò fino all’ingresso dell’aeroporto. Ricordo ancora le sue mani che stringevano le mie con tutta la forza dell’amore materno, come se volesse trattenermi con il solo potere del suo cuore. I suoi occhi, pieni di lacrime, cercavano di imprimere il mio volto nella memoria, come temesse di non rivedermi mai più. Ci separammo senza parole; nessuna frase era abbastanza grande da contenere quel momento.
A mio padre non riuscii nemmeno a dire addio di persona. Era ancora al lavoro quando si prese la decisione di partire. Gli parlai al telefono e, per lunghi secondi, nessuno di noi disse nulla: c’erano solo i nostri respiri pesanti e tremanti. Poi, con voce rotta, mi disse di essere forte. Promisi, ma sapevo che quella promessa mi avrebbe bruciato il cuore per anni. In attesa del volo, la mente tornò all’ultimo incontro con i miei amici: il 5 agosto, in un piccolo caffè. Avevamo letto poesie, raccontato storie, riso a voce alta, ignari che in pochi giorni Kabul sarebbe caduta e quella sarebbe stata la nostra ultima serata insieme».
Oggi, 15 agosto, ricorre quindi il triste anniversario del giorno in cui il paese è finito nelle mani dei talebani.
«Quel 21 agosto a metà giornata salii su un aereo militare – continua il racconto di Shamim – sentivo di lasciare non solo il mio paese, ma anche me stessa. Kabul, sotto di me, diventava sempre più piccola, e con essa un’intera vita. L’esilio iniziò così: con le mani vuote, il cuore pesante e l’amara certezza che nulla sarebbe mai stato come prima. E oggi, dall’Italia, esprimo la mia gratitudine infinita: grazie per avermi accolta, quando non avevo con me altro che una ferita aperta e un sogno fragile.»
Oggi Shamim vive in Italia, non ha perso la speranza di rivedere il suo paese finalmente libero e di riabbracciare i suoi cari. Non ha scelto il silenzio della rassegnazione, ma di raccontare la sua storia e il dramma che sta vivendo la sua gente.
(nella foto una bella immagine di Shamim)