Quando ci si trova di fronte ad opere che vincono i secoli, viene quasi naturale osservare un confronto tra il passato ed il presente, notare come i valori sui quali si basa la storia siano giunti alla società contemporanea, fare caso a ciò che è rimasto pressappoco uguale e cosa è cambiato. Un confronto spesso immediato, che permette di fare una lettura critica dell’opera basata proprio su tali differenze. Nel caso del Turco in Italia, andata in scena al Teatro Pergolesi di Jesi l’8 e il 10 novembre, tale immediatezza è venuta però a mancare. Come trovare un confronto tra passato e presente se la storia presentata, insieme alla regia scelta, sembrano essere figlie della quotidianità attuale?
“Ho da fare un dramma buffo e non trovo l’argomento” afferma in apertura il Poeta. L’ispirazione ha il colore di Donna Florilla, il giallo nella regia di Catalano, cromia per tradizione associata alla positività, all’energia e all’ottimismo. Nella gabbia della sua quotidianità fatta di casa e marito, Florilla si assume il rischio di volere sempre qualcosa in più. La libertà di collezionare relazioni per il semplice gusto di farlo. Prima il geloso Don Narciso, poi il principe turco Selim che, da buon uomo chiede di “comprare Florilla“. Il pagamento di un qualcosa è sempre il modo migliore per avere la certezza di averlo reso proprio del resto.
Non si dà follia maggiore dell’amare un solo oggetto
A guidare l’intera opera vi è così una dinamica commerciale ed individualista. Florilla vuole tutti per se perché questo unisce un po’ di giallo alla sua vita e nell’opera il principe che viene da lontano diventa l’oggetto da conquistare, Selim vuole Florilla perché averla vuol dire comprare una libertà occidentale, anomala, diversa da quella delle donne del suo Oriente, il Poeta, vuole l’intrigo per “il suo dramma buffo” con i sentimenti che diventano merce narrativa.
In questo senso, la regia dialoga apertamente con la contemporaneità, lasciando il pubblico interrogarsi sull’autenticità dei sentimenti nell’era del “tutto e subito”. L’opera diventa un’occasione per riflettere, con leggerezza ma non senza profondità, su quanto le dinamiche amorose si siano trasformate, e su quanto, forse, siano rimaste le stesse. L’interpretazione di Catalano restituisce così un Rossini che sa parlare a tutte le epoche, compresa la nostra, in cui il gioco dell’amore e della seduzione continua a essere al centro dell’esistenza umana, con tutte le sue contraddizioni. La Fiorilla di oggi potrebbe essere una figura da social network, che si alimenta di relazioni rapide e di immagini seducenti, ma che rischia di perdere il senso del vero desiderio. Nell’opera se ne accorge facendo “ritorno sconsolata all’antica povertà“, quando l’epilogo scritto più di due secoli fa rimette i personaggi del dramma al loro tradizionale posto condividendo un finale morale.
Ma il giallo di Florilla resta ed incarna, allora come oggi, il colore di una libertà femminile che trova nella gestione delle relazioni, grazie ad intuito ed intelligenza, il proprio potere. Lo dice del resto al pubblico sin dall’inizio del dramma: “non si dà follia maggiore dell’amare un solo oggetto: noia arreca, e non diletto il piacere d’ogni dì. Sempre un sol fior non amano l’ape, l’auretta, il rio; di genio e cor volubile amar così vogl’io, voglio cangiar così“.